23 agosto 2011

Sepolti nei nostri cuori






Anche quest’anno sono riuscito ad andare fin sopra al monte Ortigara, fino al famoso cippo intendo. Siamo partiti da Gallio e attraverso la Valle di Nos, Malga Galmerara, Bivio Italia siamo arrivati in cima. Per tornare siamo scesi lambendo Malga Pozze, passati per Piazza Saline, Malga Moline, Malga Bosco Secco e poi di nuovo per la valle di Nos chiudendo finalmente il giro senza perderci. Non a caso avevo al mio fianco un “pastore” :).
Chi ha fatto con me questo giro ne conosce “l’intensità”, chi non l'ha mai fatto potrà sempre rifarsi il prossimo anno perché penso di riandarci.
A parte i motivi personali che mi legano a questo giro, tutti comunque, andando sull’Ortigara, in bici o a piedi, non abbiamo potuto non pensare almeno per qualche secondo a quei ragazzi e giovani uomini che lì hanno perso la vita, tra l’altro inutilmente, almeno dal punto di vista strategico.
Più che si sale più il paesaggio assomiglia a quello che nella fantasia di ciascuno abbiamo immaginato essere quello lunare, rocce e poco altro. La fatica si fa sentire e le salite, mai impossibili, sembrano comunque interminabili. A volte, in alcuni passaggi, devi scendere e spingere o addirittura prendere la bici in spalla. L’acqua comincia a scarseggiare e sai che non ne troverai altra facilmente e per questo ti viene ancor più sete, se c’è il sole ti bruci, se non c’è hai freddo e comunque, in entrambi i casi, non c’è un riparo per proteggerti…e questi ci hanno perso la vita quassù, per questi sassi.
Sepolti nei nostri cuori è un diario di don Luigi Sbaragli, cappellano militare durante la prima guerra mondiale e testimone diretto degli scontri che ebbero come scenario il monte Ortigara.
Trovo che alcune mie giornate (periodi di vita) assomigliano un po’ all’Ortigara. Sento la fatica che irrigidisce i muscoli della volontà, provo ad idratarmi ma l’acqua è poca e devo misurarla, mi dà fastidio sia il bello che il brutto tempo, non riesco a trovare un riparo alle motivazioni che pur son certo essere state forti all’inizio del mio cammino e allora, come faccio in bici, non mi preoccupo più di arrivare alla meta ma mi basta al tornate successivo, poi magari scendo e così facendo, tornante dopo tornante, in qualche modo vado avanti e arrivo a sera. Non credo bisogna spaventarsi di queste giornate, anzi, bisogna averne cura.
Mio nonno materno, lui si che l'ha vista la grande guerra dato che ci ha partecipato in prima persona, era solito mostrarmi, senza enfasi e orgoglio, una cicatrice che aveva sulla gamba frutto di una ferita a causa di una baionetta nemica in uno scontro all’arma bianca. A seguito di questa ferita fu ricoverato e congedato come invalido di guerra. Con il sorriso dell’esperienza, quella che lui si attribuiva dicendo che avendo vissuto tanto, tanto aveva potuto sbagliare, guardando in modo alternato me e la cicatrice mi diceva: “vedi, Stefano, questa è la ferita che mi ha salvato la vita”. In effetti molti dei suoi commilitoni non sono mai tornati a casa.
E’ difficile vedere in una “brutta giornata” o in un “brutto periodo” o in una “brutta ferita” segnali, non solo di nuova vita, ma soprattutto di vita nuova tuttavia mi rasserena, almeno un po’, vedere come anche nella mia esperienza i momenti difficili a leggerli con pazienza e sincerità di cuore siano stati, nuovi parti alla vita.
Ad alcuni piace il verbo ricominciare, a me piace di più ri-partire, odora di vita. Nulla di quello che si è fatto va perso e nella vita non si ricomincia mai da zero, anche se alle volte sarebbe bello. Ripartire fa sentire male i muscoli che nel frattempo si sono raffreddati, ma è anche segno di speranza che più in là c’è qualcosa o qualcuno che il caso ha creato da sempre per me. Io poi resto del parere che il caso è Dio quando gira in incognita.
Sepolte nel mio cuore ci sono ferite che a seconda di come le "custodisco" possono impedirmi di vivere, mi paralizzano nella paura o mi generano a nuova vita.





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